I SHIN DEN SHIN
C'è una frase guida nell'Aikidō che recita: "i shin den shin".
Ma cosa significa esattamente? Vediamo cosa troviamo nella rete...
Nella tradizione giapponese della trasmissione della conoscenza dell'Aikidō, il Maestro spiega l'Aikidō attraverso le parole, fornendo la visualizzazione razionale della tecnica rivolgendosi alla mente e alla comprensione intellettuale dell'allievo che quindi apprende la spiegazione della tecnica con la mente.
Il Maestro però insegna l'Aikidō attraverso il corpo con l'esempio della propria pratica sul tatami, fornendo la visualizzazione dell'esecuzione concreta e fisica della tecnica, trasferendo 以心伝心 "i shin den shin" all'allievo la corretta dinamica fisica della tecnica attraverso la comunicazione del corretto impulso interiore e della corretta postura della mente e dell'animo, che costituiscono il presupposto e il fondamento dell'efficacia dei movimenti.
Il corpo è lo strumento cognitivo e di apprendimento dell'Aikidō.
Solamente il trasferimento diretto della capacità fisica e concreta di esecuzione della tecnica al di là della sua razionalizzazione e comprensione intellettuale, ha la capacità di generare nell'allievo il corretto apprendimento della tecnica attraverso la ricerca dell'imitazione del Maestro, sia nel movimento del corpo sia nell'azione del kokyū (respirazione) impresso dal Maestro allo svolgimento dell'azione dinamica della propria tecnica.
L'ideogramma 心 "shin" significa cuore, mente, spirito.
以心 "i shin" significa di cuore o dal cuore, dalla mente, dallo spirito.
伝心 "den shin" significa dire al cuore, dire alla mente, dire allo spirito.
L'espressione 以心伝心 "i shin den shin" significa dunque trasmissione per partecipazione diretta del proprio animo, per coinvolgimento diretto nel medesimo sentire, al di là delle parole, fra Maestro e allievo.
Ciò significa che non si può trasmettere la conoscenza dell'Aikidō solamente con le parole e i concetti, cioè con delle spiegazioni razionali di tipo cattedratico così come l'insegnamento è normalmente inteso da noi in occidente.
Nella tradizione delle discipline orientali e dell'Aikidō in particolare, la trasmissione della conoscenza appartiene invece alla sfera più sottile e più profonda del sentire, cioè del proprio intimo modo di essere non solo sul tatami ma nella stessa vita quotidiana e del modo di porsi in relazione alla pratica.
Il Maestro deve dunque avere la capacità non solo di spiegare razionalmente ai suoi allievi le tecniche di Aikidō, ma deve soprattutto essere in grado di insegnarle attraverso la dimostrazione della dinamica del proprio corpo, nell'azione fisica e concreta di fornire l'esempio di come la tecnica deve essere eseguita.
Per questo motivo tradizionalmente la lezione di Aikidō inizia con esercizi di respirazione e concentrazione con cui il Maestro genera attorno a sé quella particolare atmosfera di empatia fra gli allievi e la sua persona che funge da stimolo all'emulazione e che induce l'allievo ad apprendere a sua volta il movimento con il proprio corpo per emulazione del Maestro, memorizzandola non con la mente e la memoria del pensiero ma nel corpo stesso, sedimentandola nella propria sfera istintuale attraverso l'azione eseguita dal proprio corpo nella ripetizione sistematica degli stessi movimenti, finché questi non diventino un'azione del tutto spontanea alla cui esecuzione non necessiti più il supporto del ricordo mentale e del pensiero.
L'Aikidō s'insegna quindi con l'esempio, s'impara per imitazione ed emulazione del Maestro, si memorizza fisicamente nel corpo e nella sfera istintuale.
Insegnamento significa trasmissione 以心伝心 "i shin den shin", cioè trasmissione senza le parole e al di là delle parole.
Karlfriedied von Dürckheim, orientalista tedesco, ha scritto:
“Un maestro può solo dare delle nozioni al suo discepolo, esporgli la sua opinione, ma io solo sono capace di riconoscere la Verità, di integrarla. L'integrazione di se stessi rimane sempre il nucleo centrale. La trasmissione avviene unicamente da cuore a cuore (i shin den shin) ed è aldilà della dottrina e dell'erudizione. Ogni insegnamento si limita ad indicare, orientare verso ciò che già esiste in sé stessi, senza saperlo. Non vi è dunque un segreto che il Maestro possa "trasmettere" al discepolo: è facile insegnare, è facile ascoltare; il difficile è prendere coscienza di ciò che esiste già in sé, trovarlo e prenderne realmente possesso”.
Tutto ha origine un lontano giorno di venticinque secoli fa quando Buddha Shakyamuni, di fronte a cinquemila uditori, senza proferire parola, solleva davanti a sé un fiore.
Solo uno tra i molti comprende il significato di quel semplice gesto e sorride. E’ Mahakashapa, il discepolo a lui più vicino. Inizia così ciò che nello Zen si chiama il Tramandamento. La Trasmissione e l’originalità di questo
episodio sta proprio nell'assenza di ciò che ordinariamente noi crediamo sia lo strumento fondamentale per la trasmissione di un insegnamento: la parola.
Si dice che il Buddha spesso non proferisse parola, lasciando che si stabilisse tra lui e chi lo ascoltava una profonda e sottile corrente di pensiero, un pensiero originale e originario, non concettuale. Solo uno tra i cinquemila uditori comprese quel pensiero, Mahakashapa, che divenne così il primo patriarca dello Zen.
Nella tradizione Zen questo tipo di comunicazione è elemento essenziale per la comprensione dell’insegnamento di un Maestro. Lo Zen è incontro personale con qualcuno, con una persona che, spesso inspiegabilmente, convince; è toccare il cuore perché spesso l’incontro è uno sguardo d’intesa, un sorriso appena accennato, la semplicità di un gesto, una parola appena proferita.
La persona che noi incontriamo la chiamiamo Maestro perché riconosciamo in lui l’appartenenza a una precisa
tradizione che trae la sua origine da Shakyamuni, il Buddha storico.
Nel momento in cui Mahakashapa sorride vedendo il fiore sollevato dal Buddha, tra i due si stabilisce una intesa talmente profonda da rendere superflua ogni altra speculazione verbale. E’ ciò che in giapponese si dice “I Shin Den Shin”, da mente a mente, da cuore a cuore. I due cuori e le due menti per un istante si incontrano ed è molto difficile comprendere la natura di questo incontro perché tocca le corde più intime e nascoste della coscienza.
In alcuni sutra questo tipo di relazione è paragonata all’incontro di due frecce in volo, un evento speciale, altamente improbabile ma assolutamente possibile, un evento che, quando si verifica, trasforma la vita di un uomo. E’ in quest’ambito che lo Zen opera, e cioè nella relazione. Ciò che importa non sono i due soggetti perché, se si considerasse l’uno, inevitabilmente si finirebbe con l’escludere l’altro. Ciò che è fondamentale è la relazione tra i due, ciò che li unisce e questo trascende i singoli soggetti.
Nelle foto i grandi Buddah di Kamakura e Nara, in Giappone