Il valore delle tradizioni
Ogni prima lezione dell’anno, al corso di Shodō (calligrafia giapponese con pennello) si studia una parola e ci si esercita a scriverla, per poi eseguirla in grande formato, dove non è più la correttezza nella scritta del “kanji” ad essere ricercata, non la tecnica quindi, bensì l’immediatezza del gesto che esprime tutta la propria emotività. Naturalmente tale “performance” deve comunque rispettare i canoni di equilibrio e armonia che ognuno deve saper ritrovare dentro se stessi e quindi trasferire sul foglio tramite il pennello.
Questa è una “tradizione” e questa sarà la parola che scriverò quest’anno perché, per una serie di concatenazione di avvenimenti e pensieri, ho ripensato a una bellissima chiacchierata con un monaco buddhista avuta durante il mio soggiorno (aprile 2013) a Koyasan, centro del buddhismo esoterico Shingon.
Ad un certo punto della nostra interessante chiacchierata chiesi al monaco di spiegarmi il suo punto di vista su un aspetto che molto mi colpiva del Giappone, e precisamente la combinazione di tradizione e innovazione, visto che mi sono sempre sembrati due poli antitetici.
Il monaco mi spiegò: il termine giapponese “denshō” (伝承) è l’incontro di due ideogrammi con significati dall’etimologia molto profonda. 伝 (den) è un ideogramma che originariamente era formato da quello di 人 (uomo) e 専 (qualcosa che è stato posto all’interno di un sacco). Insieme indicano “caricare un sacco su un uomo”, dunque affidare a qualcuno un oggetto perché se ne prenda cura e lo porti a destinazione da qualche parte.
L’ideogramma nasconde al suo interno un’azione di “presa in carico” con una forte sfumatura di responsabilità per tale azione. L’azione del trasmettere e del portare a destinazione avviene soltanto dopo che un uomo si è caricato sulla sua schiena il fardello che porterà con sé.
承 (shō) invece affonda le sue radici etimologiche nei due ideogrammi che indicano chi sta inginocchiato e chi allinea entrambe le mani per ricevere. Insieme pertanto stanno a indicare proprio il gesto e la postura riverente di chi si inchina e, a mani tese, sta pronto a ricevere qualcosa.
伝承 (denshō) dunque non è solo “tradizione”, esso indica qualcosa di notevolmente più antico e profondo: l’umile e rispettosa azione di chi si inchina e si prepara per accogliere un bene, da qualcun altro dato in custodia e in affidamento perché venga recapitato.
Per la lingua giapponese questa azione rivela tutto l’apporto di responsabilità, l’umile e rispettosa devozione di chi si incarica di una commissione che appunto diventa “missione”. Dunque qualcosa di sacro, non nel senso meramente religioso, ma morale ed etico, e compenetrato nell’idea giapponese di chi intende trasmette ai posteri qualcosa che altrettanto sacramente ha ricevuto dagli antenati.
Ma come si combina quindi questo importante significato della tradizione con l’innovazione che, mi pare, sia un elemento altrettanto importante nella cultura giapponese, soprattutto nei tempi più recenti?
Il monaco mi rispose: “Tu vedi le due posizioni in antitesi, mentre io le vedo come un continuum. È insito nella natura dell’uomo ricercare e quindi anche approfondire ciò che ci è stato insegnato, ma l’aspetto cruciale del tema è che, dopo aver approfondito, alla fine ritornerai sempre a reimmergerti negli insegnamenti degli antichi per ritrovare nuova forza ed energia. Non è un ritorno al punto di partenza, ma un nuovo percorso, più profondo. È come il cerchio (l’ensho) dove ogni fine è anche un nuovo inizio. Chi non torna a confrontarsi con gli insegnamenti della tradizione, chi non capisce la profondità del termine denshō partirà da un punto, ma il suo ego non lo riporterà mai a riconfrontarsi con gli insegnamenti degli antenati, tradendo quindi ciò che gli era stato affidato.
Giovanna Coen